mercoledì 25 giugno 2014

Credere sì, credere no


(sulla traccia della relazione "Ha ancora senso essere cristiani oggi?" tenuta press il Centro culturale "Chicercatrova" dal teologo Roberto Repole  in data 23 ottobre 2013 - prima parte )

Seduti in cerchio, in un incontro dialogato e sereno si è partiti da questa domanda: Il cristiano chi è? 

Vediamo come cristiano è chi riconosce Gesù come il Figlio di Dio e perciò che riconosce nello spirito che Dio non è nient’altro che il Padre eterno di Gesù.

Per il cristiano Gesù è il Figlio di Dio e dunque il Signore di tutto ciò che esiste, anche dei non cristiani ..

Ma che significa riconoscere Gesù come il Signore?
Significa essere innestati nella Sua stessa vita, vivere la vita divina!  Sono delle espressioni che in altri termini la Bibbia stessa e il Nuovo Testamento ci consegnano.

Vivere la vita di Gesù con la stessa dinamica con cui l'ha vissuta e l’ha attraversata lui,  cioè con la dinamica della riconoscenza, della gratitudine e della fiducia che tutto ciò che viviamo è destinato al bene.

Ci soffermiamo ancora ragionando insieme nello sfatare  alcuni equivoci:

Mla fede è un dono!», quasi dando per scontato che qualcuno ce la può avere qualcun altro no.
Certo che la fede è un dono, ma è anche un atto di riconoscimento e perciò anche una vita di riconoscenza.

Gesù sì, Chiesa no. La vita cristiana , essendo un riconoscimento che siamo figli di uno stesso Padre, proprio per questo una vita fraterna

Gesù è il primogenito di molti fratelli, dice San Paolo, il primo di una cordata vasta quanto l’umanità intera di fratelli.  Non si può riconoscere Gesù come unico Signore e vivere in riconoscenza essendo innestati in Lui se non vivendo una vita da fratelli con tutti gli altri che riconoscono Gesù come Signore e sono ugualmente innestati in Lui: appunto la Chiesa, che non è un  optional.  Se siamo veramente fratelli dobbiamo avere la stessa dignità.

La fraternità è diversa dall’uguaglianza; la fraternità comporta una diversità strutturale. Il fratelli non sono uguali, sono fratelli ma non identici.
La fraternità implica uno sguardo che parte non dall’alto ma dal basso; non dal più forte, ma dal più debole; non dal più fortunato ma dal più sfortunato. Chi vive la vita cristiana sa che deve vivere una vita fraterna e perciò responsabile.
E la responsabilità c’è quando tu guardi gli altri non a partire dal primo ma dall’ultimo, perché solo quando c’e anche l’ultimo siamo sicuri che ci sono tutti!

La vita cristiana è anche una vita in cui si guarda la realtà - la stessa in cui vivono tutti cristiani e non cristiani  - dal punto di vista dell’invisibile Dio.

Il cristiano guarda la realtà, le montagne, il mare, la città, l’altro, il bambino portatore di handicap, l’anziano, tutto,  dal punto di vista dell’invisibile Dio.

In un mondo dominato dalla scienza verrebbe da dire: «Allora il cristiano ha uno sguardo ideologico»,  perché lo sguardo veramente oggettivo sulla realtà è quello degli scienziati.

Ma anche gli scienziati guardano la realtà da un certo punto di vista: per scoprire delle cose si deve fare astrazione di molte altre.

Un geologo che va in montagna per fare i suoi studi di geologia guardando la roccia della montagna deve far astrazione di  molte cose che la montagna gli offre: gli odori, i colori, la compagnia in cui si trova e deve concentrarsi sulla pietra facendo degli studi che gli permetteranno di avere uno sguardo su quella pietra, ma è frutto di tutta una astrazione che lui ha fatto.

Se nella stessa montagna ci va un poeta, la montagna è la stessa, ma gli occhi sono diversi e non si può dire che il poeta non veda nulla: vede dell’altro! Perché ha un paio di occhiali diversi.

Quindi non esiste un conflitto tra scienza e fede: si può essere scienziati e profondamente credenti, o scienziati e profondamente non credenti, il punto fondamentale è questo:  riconoscere che è possibile uno sguardo sulla realtà dal punto di vista dell’invisibile Dio, uno sguardo che conserva la meraviglia per tutto quello che c’è  e che potrebbe anche non esserci, a cominciare da noi stessi.

Si potrebbe ancora dire : «Però esiste il dolore, il male, la sofferenza». Nella misura in cui il cristiano ha uno sguardo così sulla realtà, ha una domanda fondamentale, che è proprio la domanda del: «Perché il male?».

Proprio perché vede le cose dal punto dell’invisibile Dio conserva davanti a Dio questa domanda, che nel cristiano è una domanda radicale, la domanda di Giobbe, che  rimane lì nell’attesa che sia Dio alla fine dei tempi, a risolvere ciò che per noi rimane molto spesso una domanda: tutte le altre sono soluzioni di scorciatoia

Finché riusciamo a mantenere la domanda del male avremo ancora delle possibilità di parlare di Dio come di Colui che redimerà il male. Se troppo frettolosamente cancelliamo questa domanda anche con una teologia troppo spiccia, forse  non rimane neppure spazio per parlare ancora di Dio. Il cristiano proprio perché guarda le cose dal punto dell’invisibile Dio, conserva più radicale che mai al cospetto di Dio la domanda del perché il male.

Quella del cristiano è la vita di chi vive nel mondo senza però essere del mondo.

Il cristiano è come tutti gli altri, mangia, dorme, si innamora, tiene delle relazioni, ha dei figli, lavora, lotta, soffre, gioisce (ricordiamo la lettera a Diogneto):  fa la vita di tutti. Ma vive nel mondo sapendo che questo mondo, così come  lo conosciamo e sperimentiamo, non è la totalità del suo destino.  San  Pietro dice che “i cristiani sono stranieri e pellegrini”.

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